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Sul Capitalismo Siamo in Disaccordo

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Di Frank Miroslav. Originale pubblicato il primo maggio 2025 con il titolo We Don’t Agree on Capitalism. Tradotto in italiano da Enrico Sanna.

Non un buon secolo per le teorie

Un fatto curioso nella storia dell’anarchismo e del marxismo è che, nonostante vecchie rivalità e conflitti, molti anarchici accettano Marx. Dovendo dare una definizione precisa del capitalismo, gli anarchici concordano con i marxisti più libertari.

Certi anarchici ammettono di buon grado questa coincidenza di opinioni, il fatto che frange marxiste libertarie come i consiliaristi e gli autonomisti siano quasi se non interamente anarchici. Altri ci vedono un approccio in malafede e sostengono erroneamente che il marxismo implica per forza la gestione statale dell’economia, o che i marxisti, che sono tali riguardo l’economia, non hanno mai accettato l’esistenza di nuove classi come i dirigenti e i professionisti.

Ma non tutti gli anarchici non marxisti sono così superficiali. Alcuni hanno analizzato a fondo il marxismo con critiche sofisticate. Anche qui, però, si trovano incoerenze. Il defunto David Graeber, ad esempio, sosteneva che “la competizione sul mercato non è quel tratto essenziale del capitalismo che credevano Marx e Engels” ma ammetteva anche che non c’è “necessariamente alcuna contraddizione tra anarchismo e marxismo”. Questa tendenza ad accettare il marxismo criticandone gli aspetti chiave è molto diffusa tra gli anarchici.

Un anarchico potrebbe essere fortemente critico verso il marxismo, ma l’assenza di teorie alternative fa sì che vi ricorra quando si trova a definire il capitalismo. Il marxismo è l’ipotesi nulla dell’anticapitalismo: la si accetta in assenza di confutazioni esplicite. Questa incoerenza, però, secondo me non è conseguenza del fatto che l’anarchismo è una forma di marxismo. Piuttosto possiamo dire che se il marxismo (oggi) domina tra gli anarchici è per via di contingenze del passato.

Quando Marx era ancora in vita, e nei decenni immediatamente successivi alla sua morte, il marxismo non era che una delle tante correnti del socialismo. In How to Change the World, Eric Hobsbawm come esempio dell’influenza di Marx cita Contemporary Socialism di John Rae, che, pubblicato l’anno dopo la morte di Marx, dedicava al marxismo solo uno dei suoi nove capitoli. E poi allora era ragionevole dubitare che il marxismo potesse diventare il fulcro dell’anticapitalismo. Agli inizi del Novecento la sua carica rivoluzionaria si esauriva sulla scia del riformismo dei partiti socialdemocratici di massa. Gran parte della sinistra rivoluzionaria, tra il 1900 e i primi anni Dieci, era associata al sindacalismo radicale, emerso in risposta al già citato conservatorismo delle socialdemocrazie dominate dai marxisti. Se singoli sindacalisti si ispiravano a Marx, il movimento in sé nelle sue basi teoriche era molto eterogeneo. Fu la guerra civile russa a mettere il marxismo al centro dell’anticapitalismo rivoluzionario.

A rendere attraente il marxismo era chiaramente l’apparente successo rivoluzionario dei bolscevichi. Nonostante l’immediata reazione contro la propaganda che esagerava il ruolo della disciplina bolscevica e delle teorie marxiste, fu indubbiamente il successo militare a stregare gli aspiranti rivoluzionari. E poi l’Unione Sovietica aveva un indubbio peso filosofico. Era uno stato che giustificava la propria esistenza appellandosi esplicitamente ad una filosofia moderna che sosteneva l’imminenza e l’auspicabilità di una rivoluzione mondiale. Si trattava di una novità mondiale, il marxismo doveva essere preso sul serio anche dalle forze più conservatrici. La conseguenza fu che l’URSS diffuse una filosofia marxista, raccolse, tradusse e divulgò massicciamente le opere marxiste a giustificazione delle proprie politiche, ma anche per fare proselitismo e indicare la via dottrinale ai partiti e agli stati allineati con Mosca. Conseguenza diretta fu la maggiore accessibilità delle opere marxiste rispetto a quelle di altre tradizioni socialiste. Questo spiega in parte perché il Manifesto Comunista, un best-seller assoluto paragonabile alla Bibbia o al Capitale, è uno dei libri più citati in sociologia. Ma non era solo un’imposizione di ideali dall’alto. Nel lungo termine anche le correnti marxiste di base contribuirono enormemente a formare l’anarchismo.

Prima della Prima Guerra Mondiale, la maggioranza degli intellettuali marxisti erano ricollegabili direttamente ai partiti socialisti. Insegnavano nelle scuole di partito o svolgevano attività giornalistica o di ricerca per conto del partito. Pertanto le loro opere si concentravano su temi pragmatici come lo sviluppo economico e le strategie da seguire. Dopo la guerra, questi intellettuali cominciarono ad allargare la portata dei loro studi includendo la critica sociale, l’analisi culturale e la speculazione filosofica.

Una delle ragioni del cambiamento era la linea di partito imposta dall’Unione Sovietica. Se volevano ottenere riconoscimento e sostegno da parte dell’Unione Sovietica, i partiti comunisti dovevano accettare una particolare linea politica e economica. Gli intellettuali marxisti organici ai partiti comunisti non potevano pertanto elaborare una loro linea di pensiero autonoma.

Contemporaneamente, sempre più persone colte di classe media cominciarono a interessarsi al marxismo, attirate dalla sua popolarità e dalla forte radicalizzazione iniziata con la Prima Guerra Mondiale. Si poteva scrivere del marxismo ed essere allo stesso tempo artisti o accademici ma fuori dal partito. Lontano dalle questioni sociali, ci si occupava principalmente di cultura e filosofia più che di movimenti sociali. La tendenza, dato l’aumento dei fondi durante la guerra fredda, si intensificò al crescere del mondo accademico. Molti marxisti estremizzati nel movimento studentesco portarono nel mondo accademico un corpus di conoscenze tale da contrastare i paradigmi tradizionali e influenzare la società grazie ai finanziamenti statali.

Ne derivarono diversi sviluppi positivi, come il fatto che alcuni marxisti riuscirono a spostare significativamente l’ago della bilancia in varie discipline, come la storiografia. Purtroppo l’ambito accademico produsse anche incentivi negativi a cui molti a sinistra non seppero resistere. Il risultato fu la nascita di feudi accademici, la chiusura degli ambiti disciplinari, una pletora di commenti extratestuali e identità professionali che scoraggiavano un attivismo sostanziale.

Co l’ascesa del marxismo si eclissò l’anarchismo. Il fallimento della Guerra Civile Spagnola fu dovuto in parte all’azione dell’Unione Sovietica che intendeva controllare i repubblicani. Seguì una diffusa persecuzione da parte degli stati in tutto il mondo, persecuzione che decimò il movimento. Comunità anarchiche un tempo vitali furono distrutte con spedizioni punitive e sollevamenti sociali. Libri anarchici si potevano trovare solo in certe librerie radicali o nell’usato.

Negli anni Cinquanta l’anarchismo era considerato ideologia morta. Comunità anarchiche italiane, greche e britanniche sopravvissero  ai torbidi della guerra, ma erano considerate fenomeni secondari rispetto al confronto tra socialisti e capitalismo. In un’epoca di stati (apparentemente) razionali, centralizzati e ad organizzazione gerarchica, e di imprese celebrate internazionalmente, era facile per i marxisti liquidare come irrilevante il movimento anarchico perché considerato economicamente arretrato e luddista.

Come afferma Eric Hobsbawm nel suo saggio Reflections on Anarchism, l’anarchismo non era solo un movimento rivoluzionario fallito, ma anche (presumibilmente) “pensato per fallire”. Anche chi aveva simpatie anarchiche nutriva qualche dubbio sulla sua fattibilità. Lo storiografo George Woodcock, che agli inizi degli anni Sessanta scrisse una delle più accademicamente influenti storie dell’anarchismo, arrivò alla conclusione che si trattasse di un’ideologia esaurita. Ma il movimento sopravvisse ai giudizi. Tra gli anni Sessanta e Settanta, partendo da un piccolo gruppo di attivisti anarchici dichiarati negli Stati Uniti e in Europa, cominciò una lenta ripresa.

Il marxismo prevalente allora tra gli attivisti era molto diverso da quello prevalente negli anni Trenta. La delegittimazione dei partiti comunisti ufficiali fu un fatto inevitabile dopo certe atrocità commesse dall’Unione Sovietica. Molti nella New Left però restavano marxisti. Il problema, dicevano, era una scorretta applicazione delle teorie. Fu così che molti a sinistra adottarono un marxismo fondamentalistico ritornando a Lenin, Trotsky, Mao e altri rivoluzionari alla ricerca di risposte chiare su come cambiare la loro società. Si trattava di organizzazioni fortemente settarie con scarso seguito: cambiare il mondo si rivelò molto più difficile di quanto non prevedessero le loro semplici teorie che promettevano la vittoria.

Fu questo il loro punto debole davanti ai grandi cambiamenti sociali. Molti di quelli che approdarono al marxismo lo fecero in un contesto di rivolta sociale che faceva presupporre un imminente cambiamento rivoluzionario. La svolta conservatrice degli anni Ottanta mandò in frantumi il presupposto e portò molti alla disillusione. La fiducia fu poi ulteriormente erosa dalle riforme e il conseguente collasso degli stati socialisti tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta: molti marxisti della New Left avevano giustificato le proprie aspirazioni proprio sulla base del “successo” di Russia, Cina e altri paesi socialisti.

Data la prevalenza del marxismo, fu facile per gli anarchici dell’epoca rigettare i peggiori aspetti di un’ideologia divenuta realtà. Nonostante il rigetto, però, restavano sottili influenze nel campo delle idee. Citerò qui il caso di due importanti anarchici che negli anni Novanta definirono il centro di gravità dell’anarchismo e che in gioventù erano stati marxisti della New Left: John Zerzan e Murray Bookchin.

Bookchin, dopo aver rotto con il marxismo negli anni Cinquanta, assunse inizialmente un atteggiamento ostile. Il polemico Listen Marxist era una condanna del marxismo con cui cercava di respingere il tentativo di imporsi del movimento Students for a Democratic Society nel 1969, e invocava una “trascendenza” del marxismo dichiarando Marx ed Engels “centristi”. Più tardi Bookchin passò ad un apprezzamento più sfumato del marxismo, soprattutto dopo essersi avvicinato ai marxisti della Scuola di Francoforte con la loro critica della razionalità strumentale e della modernità. In seguito alla rottura con l’anarchismo, articolò la teoria del “comunalismo” contenente quello che lui considerava “il meglio dell’anarchismo e del marxismo”. Il suo ideale di federazione di comunità democratiche dirette in armonia con la natura è chiaramente in linea con varie aspirazioni marxiste libertarie.

Il caso di Zerzan è più complesso. A prima vista, il suo primitivismo sembra l’esatto opposto del marxismo: respinge la possibilità di una civiltà tecnologica più razionale che si serva dei frutti del capitalismo e al suo posto invoca il ritorno ad una forma arcaica di libertà. Come in altri casi, però, la sua critica della civiltà siede su una lettura tecnologicamente determinista di Marx e una critica variamente marxista della razionalità (ancora la Scuola di Francoforte!), arrivando alla conclusione che i requisiti sociali delle tecnologie complesse comportano sempre la schiavitù dell’uomo e la distruzione dell’ambiente (vedi anche l’influenza del marxismo sulla rivista primitivista Fifth Estate, per esempio).

A mio parere, il problema di queste articolazioni del pensiero anarchico non è l’influsso marxista. È invece il fatto che non cerchino neanche di affrontare questioni come il libero arbitrio, che secondo me dovrebbero essere al centro della teoria anarchica. Non sono il primo anarchico a notarlo, ma forse sono il primo a cercare di scrivere una teoria del capitalismo che ruota esplicitamente attorno a queste questioni.

L’assenza di chiare alternative teoriche dipende dalla contingenza e dagli sviluppi del discorso negli spazi anarchici. Nonostante le dimensioni contenute, l’anarchismo ha visto, a partire dagli anni Trenta, un consistente sviluppo concettuale in gran parte ignorato non solo dai marxisti ma anche dalla filosofia politica in generale. È deprimente il fatto che in gran parte ciò non sia stato reso accessibile.

Molte delle idee anarchiche attualmente sussistono in forma tacita intersoggettiva tra persone. Per afferrarle occorre vivere determinate situazioni, acquisire e condensare sufficienti informazioni attualmente disperse in una moltitudine di persone, pubblicazioni di settore, blog, social, testi di persone non anarchiche e così via. Tutto ciò rende inutilmente difficile diventare anarchici e impedisce il dialogo tra anarchici provenienti da contesti e situazioni diverse.

In parte ciò è il risultato del desiderio di accumulare capitale intellettuale o di preservare una certa unicità sottoculturale, grossomodo come il gergo marxista. Ma è anche conseguenza delle critiche primitiviste dell’alienazione tecnologica, che purtroppo tra gli anni Novanta e il primo decennio Duemila hanno tenuto lontano da internet molti anarchici. Molte sono le cose che non sono mai arrivate su internet.

L’atteggiamento cominciò a cambiare nel primo decennio Duemila grazie alla crescente diffusione di internet, al cambio generazionale e a importanti movimenti come Occupy che sfruttavano i social. Purtroppo, i fatti tumultuosi e la forte estremizzazione a sinistra a partire dal 2016 hanno spinto molti a fare da pompieri.

L’aspetto positivo è che la comunicazione diretta non è essenziale per l’anarchismo. Emma Goldman (per citarne una) avrebbe scritto circa duecentomila lettere in tutta la sua vita. Internet aiuta molto il dialogo, ma non è indispensabile.

Per tornare, gli (attuali) rapporti confusi con il mondo marxista non significano che il progetto anarchico è profondamente tarato, incoerente o nascostamente marxista. Piuttosto sono la conseguenza dell’attrazione gravitazionale filosofica e sociale che il marxismo ha esercitato sul pensiero anticapitalistico nel corso del Novecento, nonché dell’attuale processo di adattamento ai mutamenti prodotti dall’informatica. Si può uscirne, e io vorrei dare una spinta al processo.

Pertanto…

Serve una critica del capitalismo specificamente anarchica

Una cosa che vorrei far capire è che per noi anarchici il potere non è solo un male per chi lo subisce, ma spesso ha effetti deleteri anche sui dominatori. E per ragioni molto profonde.

Dominare e controllare significa anche dare istruzioni ai dominati. Per capire perché ciò crea problemi immediati, pensiamo a un algoritmo. Un algoritmo è un processo che, passo dopo passo, cerca di arrivare a un determinato risultato partendo da certe istruzioni iniziali. Se vuoi controllare qualcosa devi ridurne il potere decisionale ad un algoritmo definito da te.

E qui nascono i problemi. L’algoritmo opera valutando tutte le possibilità sulla base di una gamma di istruzioni inizialmente note. Ma se la gamma di istruzioni sfugge alla nostra capacità di valutare, noi non possiamo sapere con certezza se l’algoritmo funzionerà.

Anche i più ostinati sostenitori raramente pensano che il potere gerarchico debba essere perfetto. Ma anche con una certa tolleranza sui risultati, definire la gamma di istruzioni può essere un grosso problema.

La ragione sta nel rapporto tra causa ed effetto. Sistemi semplici reagiscono prevedibilmente alle istruzioni e sono affidabili anche nel lungo periodo. Questo perché hanno una struttura rigida, immutabile. I sistemi che hanno la capacità di rispondere all’ambiente e regolarsi da sé, ovvero che hanno caratteristiche normalmente associate al “libero arbitrio” (memoria, obiettivi, capacità di riflettere e così via) sono invece molto più imprevedibili. Questo perché al processo decisionale interno si aggiungono le istruzioni che provengono dall’ambiente e che influenzano il processo stesso.

Ma a dare problemi non sono solo i sistemi complessi. Anche processi apparentemente semplici contengono un’infinità di possibilità proprio perché possono essere utilizzate in modi diversi dal solito. Ad esempio, un mattone può essere usato in maniera ovvia, come materiale da costruzione, ma anche in maniera non ovvia, ad esempio piantando fiori nei fori, lanciandolo contro una finestra in segno di protesta, come oggetto di scena a teatro e così via. E anche le parti costituenti di un “oggetto” possono essere modificate in tantissimi modi: l’argilla di cui è fatto un mattone contiene silicio e alluminio che possono essere estratti e usati per qualcosa di affatto diverso.

Tolti i contesti più elementari, a monte di qualunque azione troviamo un numero enorme di variabili che non possono essere incorporate in un algoritmo predefinito che guidi l’agente. Fortunatamente, questo è un problema che singoli e associazioni hanno trovato il modo di governare, anche se solo in caso di programmazioni dal basso basate sull’interazione costante col mondo e con un riscontro continuo, non nel caso di direttive imposte dall’alto.

Il risultato non è perfetto, ma il punto non è la perfezione, il punto è raggiungere gli obiettivi. Questo modo propositivo di approcciarsi alla realtà è in contrasto col mantenimento di un controllo gerarchico. Un sistema basato su un algoritmo è prevedibile ma anche fragile davanti a fenomeni inattesi. Questo va a vantaggio dell’approccio libero. Qualsiasi persona con un certo grado di libertà può aggiornare non solo lo schema ma anche gli obiettivi, il che può significare la possibilità di ribellarsi contro chi controlla.

È proprio questo che rende strutturalmente irrazionale un’organizzazione gerarchica rigida. I dettati organizzativi ignorano o vietano soluzioni che appaiono “ovvie” a chi è a contatto diretto con un dato problema, perché una valutazione autonoma di tale problema può essere pericolosa e perché dall’opportunità può nascere l’insubordinazione. Il problema della comunicazione, poi, complica il tutto. In una comunicazione a due, soltanto una parte delle informazioni possono essere comunicate. Questo perché il canale comunicativo può veicolare solo una frazione delle informazioni contenute nel cervello.

Il limite è tanto più stretto quante più sono le persone coinvolte. Chiunque cerchi di tenere sotto controllo altri deve limitare o comprimere il flusso informativo per evitare il sovraccarico. Questa compressione comporta spesso una forte perdita di informazione, dovuta allo scarto enorme tra complessità del pensiero e capacità comunicativa di canali come il linguaggio. È possibile correggere errori, ma occorre che la persona confusa articoli le proprie confusioni e ne ottenga un chiarimento, il che richiede un lungo botta e risposta. Anche questo problema cresce al crescere delle dimensioni dell’organizzazione data la limitatezza del tempo occorrente per i chiarimenti.

Poniamo il caso in cui le direttive sono inesatte. Un superiore potrebbe teoricamente intervenire e fornire direttive corrette. Il fatto è che occorre tempo per inquadrare il problema e elaborare una soluzione, e quando finalmente le direttive corrette arrivano ai subordinati è troppo tardi.

Questi limiti propri delle strutture gerarchiche portano spesso i subordinati, in un sistema formalmente controllato, a ricavarsi spazi autonomi all’insaputa dei superiori. Spesso questa autonomia è fondamentale per il funzionamento del sistema, che così può ovviare ad imprevisti e incomprensioni. Pertanto i vertici si trovano a bilanciare il potere dando ai subordinati quella libertà che serve a rendere adattabile il sistema, ma non una libertà tale da rovesciare la struttura gerarchica. Si tratta di un problema che tutte le società gerarchiche note hanno dovuto affrontare, e che ancora oggi rappresenta un’occasione mancata di ribellione. L’opuscolo How to Fire Your Boss, spiega brevemente ai lavoratori come sfruttare queste irrazionalità sistemiche contro i capitalisti.

Una ragione in più a favore di un’ugualitarismo relazionale. Data  l’onerosità del controllo, spesso risulta più conveniente dare ai subordinati un certo grado di autonomia. Ciò porta le parti ad accordarsi un certo grado di fiducia: nonostante le differenze potenziali in termini di ricchezza, potere, intelligenza, stato sociale e altro, i vertici farebbero meglio a rispettare i subordinati in quanto l’autonomia dà a questi la capacità di imporre costi impercettibili che si accumulano col tempo.

Questa teoria della efficienza delle relazioni paritarie è in contrasto con la teoria marxiana della efficacia delle relazioni gerarchiche, che secondo Marx spiega la persistenza del capitalismo. Alla base della teoria marxiana, che spiega il dominio capitalista e l’estrazione di plusvalore con la persistenza delle differenze di classe, è la premessa secondo cui ciò che i singoli capitalisti fanno con il loro capitale è razionale ai fini dello sfruttamento dei lavoratori. In una società capitalista, il successo nel mercato si ottiene migliorando la produttività, battendo la concorrenza ed eliminando le configurazioni meno produttive.

Un modo per migliorare la produttività passa per la razionalizzazione dei processi produttivi e l’incorporazione nella macchina delle capacità del lavoratore. Così Marx ne Il Capitale:

Mediante la sua trasformazione in macchina automatica, il mezzo di lavoro si contrappone all’operaio durante lo stesso processo lavorativo quale capitale, quale lavoro morto che domina e succhia fino all’ultima goccia la forza – lavoro vivente. La scissione fra le potenze mentali del processo di produzione e il lavoro manuale, la trasformazione di quelle in poteri del capitale sul lavoro, si compie, come è già stato accennato prima, nella grande industria edificata sulla base delle macchine. L’abilità parziale dell’operaio meccanico individuale svuotato, scompare come un infimo accessorio dinanzi alla scienza, alle immani forze naturali e al lavoro sociale di massa, che sono incarnati nel sistema delle macchine e che con esso costituiscono il potere del «padrone» (master).

Questa razionalizzazione fa sì che più lavoratori stiano sotto il comando di un solo capitalista, il che accresce la produttività:

Non è possibile qui dare uno svolgimento delle leggi di questa centralizzazione dei capitali ossia dell’attrazione del capitale da parte del capitale. Basterà un breve cenno sui fatti. La lotta della concorrenza viene condotta rendendo più a buon mercato le merci. Il buon mercato delle merci dipende, caeteris paribus, dalla produttività del lavoro, ma questa a sua volta dipende dalla scala della produzione. I capitali più grossi sconfiggono perciò quelli minori. (enfasi mia)

Questa produttività è ciò che permette al capitalismo di dominare il mondo. Così nel Manifesto del Partito Comunista:

Col rapido miglioramento di tutti gli strumenti di produzione, con le comunicazioni infinitamente agevolate, la borghesia  trascina  nella  civiltà  anche  le  nazioni  più barbare.  I  tenui  prezzi  delle  sue  merci  sono  l’artiglieria pesante con cui essa abbatte tutte le muraglie cinesi, e con cui costringe a capitolare il più testardo odio dei barbari per lo straniero. Essa costringe tutte le nazioni ad adottare le forme della produzione borghese se non vogliono perire; le costringe a introdurre nei loro paesi la cosiddetta civiltà, cioè a farsi borghesi.

Ed è in questa produttività centralizzata che Marx vede la possibilità di superare il capitalismo. Nelle sue opere, Marx sottolinea costantemente l’apparente contraddizione tra la (presunta) razionalità aziendale e l’esterna “anarchia” del mondo dello scambio.

Nel terzo volume del Capitale spiega come l’emergere delle società per azioni abbia in parte socializzato la proprietà grazie a forme di proprietà diffusa. Marx parla esplicitamente di “abolizione del modo di produzione capitalista a partire dal suo interno”, abolizione di cui le società per azioni sono tecnicamente la prima pietra.

Io credo che sulla tendenza alla semplificazione Marx abbia visto giusto. Ma semplificazione non significa maggiore produttività. L’asserzione di Marx secondo cui processi produttivi possono essere creati razionalmente è storicamente dubbia e non solo. Si veda ad esempio David Noble che spiega come gli industriali americani avessero introdotto processi di automazione scarsamente produttivi che intensificavano il controllo sui lavoratori, oppure gli studi sociologici e antropologici sulle grandi aziende.

La rigidità può certamente aumentare la produttività, ma solo per scopi particolari. Il risultato inatteso potrebbe essere la riconfigurazione del processo e l’impossibilità di configurare il lavoro in modo da ampliarne i campi di applicazione. E questo è il punto, più o meno. Perché il sistema capitalista cerca di ottimizzare prima il controllo e poi la produttività. Gli stati e le grandi imprese sono in simbiosi tra loro, si passano ciò che serve a navigare in un mondo fatto di incertezze.

I capitalisti sono interessati a una tecnologia che rafforzi il proprio potere, che renda il lavoratore malleabile e controllabile, perché è così che si mantengono le economie di scala e la moderazione dei salari. Dal punto di vista della società si tratta di modi di procedere costosi e inefficienti per via delle tante esternalità negative. Dal punto di vista dello stato, invece, questo arrangiamento è preferibile perché la centralizzazione economica gli permette di realizzare meglio i propri scopi: è più facile avere a che fare con poche imprese di grosse dimensioni.

Ecco perché le grandi imprese ricevono un trattamento preferenziale da parte dello stato, il quale riconosce loro i diritti di proprietà di ciò che è stato ottenuto con l’esproprio o la guerra, rende difficile la vita di lavoratori autonomi e cooperative con costi alti o divieti, o ancora incentiva le infrastrutture dei trasporti, tanto per citarne qualcuna. Come spiega in dettaglio Kevin Carson, da secoli lo stato interviene a semplificare il contesto in cui operano le imprese. Il punto è far sì che l’intervento non sia risolutivo. Si lascia un margine di flessibilità, di ridondanza, perché il sistema si adatti. Non esiste una sistemazione statica che garantisca il potere, c’è un continuo adattamento a una realtà che cambia.

Un aspetto fondamentalmente positivo del capitalismo è la sostituibilità dei capitalisti. Capitalisti e aziende possono fare errori entro un certo margine, oltre il margine c’è la rimozione e la sostituzione. Si tratta di processi autofagici che riguardano le industrie in generale. Tecnologie distruttive possono uscire dal quadro giuridico e sconvolgere non solo le industrie esistenti ma anche le relazioni di potere. Chi vende tecnologia ha buone ragioni per integrarsi con lo stato per continuare a fare profitti. Man mano che si trovano campi di applicazione di una data tecnologia, cresce la tendenza ad appellarsi allo stato perché imponga barriere al suo utilizzo, prima che le strutture di potere ne siano intaccate.

Questi rimescolii li troviamo in quegli stati che cambiano pacificamente politici, partiti e anche ideologie grazie a procedure democratiche, senza precipitare nei disordini. In seguito è il capitalismo liberale a diluire il problema del controllo nella massa e facilitare il ricambio delle tecnologie e delle élite in maniera più efficiente rispetto alle società del passato. Pertanto le società capitaliste hanno maggiori capacità di adattamento di altri ordini sociali.

È stata questa capacità di adattamento a permettere la diffusione mondiale del capitalismo. Lo stato moderno è riuscito a sfruttare nuove tecniche e arrangiamenti sociali per sconfiggere le forze conservatrici. Mettere in pratica le novità, però, ha comportato forti disordini interni. La situazione è stata particolarmente difficile per gli ordinamenti meno flessibili, che spesso si bloccavano, collassavano o sfociavano nella rivoluzione.

(L’esempio schematico presentato qui, di un potere capitalista in relazione con un solo stato, è complicato da schemi geopolitici per cui i capitalisti intavolano rapporti con élite politiche di più stati in competizione tra loro. La questione è da approfondire, ma non credo che smentisca la relazione simbiotica tra stato e capitale delineata da me.)

Nonostante la maggiore flessibilità rispetto ad altri macrosistemi di dominio, il capitalismo resta strutturalmente conservatore: un ordine sociale più dinamico e sensibile renderebbe impossibile il genere di controllo imposto dal profitto capitalista. La prima conclusione è, banalmente, che le cose potrebbero andare meglio. Molte possibilità tecniche e organizzative latenti potrebbero venire alla luce e migliorare significativamente la realtà in molti ambiti, dalla produttività alla realizzazione di sé alla riduzione delle esternalità negative. Dovrebbe essere evidente ma lo dico comunque viste le scarse aspirazioni della sinistra attuale.

Questa critica del capitalismo, pur non promettendo un’alternativa di fondo, potrebbe fornire una generica strategia d’azione. Pochi anarchici hanno articolato la questione capitalismo a questi alti livelli; molti però conoscono queste dinamiche, almeno in parte, grazie alla pratica concreta e alle tradizioni teoriche. Da qui tutto un insieme di tattiche che sfruttano i limiti e gli aspetti negativi del capitalismo.

Le tattiche sono tante. Io personalmente approvo il percorso delineato da William Gillis:

• Insurrezione Atti di resistenza popolare attraverso azioni dirette che chiunque può fare.

• Sfruttamento Assalti specifici contestuali che richiedono conoscenze, capacità e presenza sul posto.

• Sviluppo Esplorare tattiche tecniche alternative e linee di condotta ignorate o scartate da altri.

• Contestazione Far pressione sulle istituzioni esistenti al fine di spostare l’ago della bilancia in proprio favore.

• Prefigurazione Testare, tramite applicazione pratica, nuove pratiche e tecniche alternative sociali e diffonderne l’uso.

• Erosione Rendere l’economia e la società più decentrata e reattiva.

Tratto comune è lo sfruttamento o il mantenimento di possibilità negate dalle strutture di potere. Queste possibilità aperte mi portano a quella che da tempo è considerata la differenza principale tra marxisti e anarchici: l’etica anarchica che motiva e guida l’azione dell’individuo. Il marxismo, per contro, tende a incanalare l’energia che viene dalla reazione in un’oppressione strutturale.

È opinione diffusa che etica e azione siano in conflitto, e non è un’opinione del tutto infondata. L’etica è solitamente interpretata come l’ordine di non fare certe cose. Ceteris paribus, limitare le scelte di qualcuno significa menomarlo rispetto a chi è meno solerte.

Sembrerebbe corretto. Hai poche probabilità di vincere contro un avversario pronto a fare ciò che per principio tu hai deciso di non fare. Ma se il conflitto ha luogo in un periodo di tempo più lungo o in un contesto aperto, conoscere i propri valori e le proprie aspirazioni aiuta. Quando si vuole di cambiare un sistema complesso è molto facile compiere azioni a prima vista efficaci ma che poi si rivelano controproducenti. Per un vero progresso occorre sbrogliare i fili del caso e trovare i punti nascosti su cui fare leva. La chiarezza d’intenti aiuta a eliminare i dati irrilevanti, chiarisce il campo d’azione e rende più facile capire cosa fare. Il punto non è agire in maniera perfetta ma cogliere le opportunità altrimenti invisibili e vedere le trappole nascoste.

Ciò che è valido dev’essere perseguito, e la fiducia reciproca permette una maggiore cooperazione dinamica. Se pensi che qualcuno condivide i tuoi obiettivi, hai ragione di credere che le sue azioni indipendenti andranno anche a tuo vantaggio. Questo è importantissimo quando si ha una certa gamma di possibilità. I limiti informativi imposti da un’organizzazione centralizzata escludono i percorsi molteplici. Un gruppo di persone libere, che non deve passare per un comitato centrale, può molto più efficacemente seguire una molteplicità di percorsi in un panorama mutevole di possibilità aperte, ma solo se c’è una vera convinzione.

Capisco chi vede in Marx un’etica implicita. Ma la ragione principale della sua popolarità tra i socialisti è l’amoralità dichiarata dei suoi ragionamenti. I partiti socialisti ottocenteschi si sentivano attirati da Marx perché offriva una soluzione alla mancanza di unità della classe lavoratrice. Le teorie marxiane erano rassicuranti: le divisioni sarebbero finalmente scomparse grazie allo sviluppo delle forze economiche. Il capitalismo, diceva la teoria, avrebbe dovuto semplificare il lavoro al punto che i singoli lavoratori sarebbero diventati intercambiabili, e avrebbe concentrato la proprietà fino rendere evidente chi fosse il nemico, pertanto spingendo i lavoratori ad unirsi in collettivi al fine di sopravvivere; e questo avrebbe dato loro la forza per uscire vittoriosi da una rivoluzione. Le varie correnti di interesse che marcavano la classe lavoratrice del tempo sarebbero state erose da semplici fattori economici lasciando in piedi l’interesse della maggioranza proletaria.

Niente di tutto ciò è accaduto. La classe lavoratrice ottocentesca era divisa per specializzazioni, regioni e settori industriali. La società non affondò nella miseria: alla fine dell’Ottocento nei paesi industrializzati la paga dei lavoratori cresceva e la classe media non si era ridotta come percentuale della popolazione. Tra i lavoratori esistevano simpatie ma niente che somigliasse all’unità di classe immaginata da Marx.

I fallimenti del marxismo vanno oltre le previsioni sbagliate sul corso del capitalismo. Non fu neanche in grado di vedere l’emergere di nuove dinamiche di potere all’interno dello stesso movimento socialista. All’interno di partiti e sindacati socialisti nacque una classe burocratica con interessi propri. Emerse come conseguenza delle limitate possibilità comunicative citate più su. Per quanto sostenessero di operare “nell’interesse dei lavoratori”, già alla fine dell’Ottocento i partiti socialisti si stavano allontanando progressivamente dalla democrazia diretta per andare verso la burocratizzazione e il potere rappresentativo che permetteva azioni su vasta scala. Cercarono allora di ingabbiare il naturale radicalismo dei lavoratori, spingendoli ad unirsi in associazioni che canalizzassero lo scontento e facilitassero i negoziati tra rappresentanti sindacali e capitalisti.

Ovviamente, i limiti informativi tagliavano la capacità delle parti di disciplinare i lavoratori. I sindacati si affermarono soprattutto perché i lavoratori erano frustrati dall’incapacità di agire direttamente. Inoltre il desiderio di mantenere la legittimità del partito (e la loro posizione al suo interno) portò i politici socialisti ad aprirsi alla collaborazione con lo stato. Il culmine fu la collaborazione dei partiti socialisti con i governi durante la Prima Guerra Mondiale. In importanti paesi industriali come la Francia e la Germania, il consenso dei socialisti, nonostante la loro fede internazionalista, fu indispensabile per approvare i fondi bellici e sopprimere l’opposizione popolare alla guerra.

La tendenza dei marxisti ad essere messi in un angolo dalle emergenti dinamiche di classe all’interno dei loro movimenti, conseguenza della centralizzazione che dura ancora oggi, fa capire che, anche nel migliore dei casi, dopo la rivoluzione riemergerebbero molto probabilmente le differenze di classe.

Le società astatuali egalitarie non si reggono su un’autorità centrale e non sono guidate democraticamente. Operano sulla base di una struttura frattale di pesi e contrappesi. Teoricamente, ognuno ha la capacità di imporre seri costi sugli altri. Questo sistema resiste molto meglio ad una presa del potere rispetto ad un’istituzione centralizzata.

Premessa di questi problemi sono i limiti essenziali che ho descritto all’inizio riguardo i processi decisionali algoritmici e la disparità nel tasso di trasferimento di informazioni tra singoli. L’emergere di relazioni di potere in grado di metastatizzarsi in uno stato impone non solo la riforma delle norme sulla proprietà ma anche cambiamenti culturali e tecnici.

Il compito è ben più difficile di quello imposto dal marxismo, non ultimo perché non deriva da un’opposizione diretta all’esistente. Certo l’uomo combatte il potere, lotta per una causa in cui crede e aiuta le persone a lui care. Ma se guardiamo alla storia dei movimenti popolari, vediamo che solo una minoranza delle persone coinvolte passa dalla lotta per questioni immediate a quella contro il potere in generale.

Per fortuna non dobbiamo cambiare tutto in una volta sola.

Il marxismo critica i cambiamenti progressivi denunciando soprattutto la fragilità delle riforme socialiste e la tendenza a farsi cooptare delle istituzioni dei lavoratori. Visti i fallimenti storici, molti arrivano alla conclusione che il cambiamento deve essere radicale e immediato, pena il ritorno graduale del capitalismo. Ma le tante cooptazioni non sono il risultato dell’infinita capacità di adattamento del capitalismo, bensì della fragilità dei mezzi impiegati dai socialisti.

Molti dei problemi del socialismo venivano dall’incapacità di riconoscere che i cambiamenti apparentemente positivi erano trappole che ingabbiavano il progresso. Il succitato conservatorismo del Partito Socialdemocratico Tedesco emerse solo con l’abrogazione delle leggi antisocialiste che lo dichiaravano fuorilegge. Fu allora che uomini di partito e sindacalisti si professionalizzarono, finendo per vedere nel partito un fine in sé, un’occasione per fare carriera, e non lo strumento di un cambiamento rivoluzionario.

Cambiamenti fragili, data la necessità di un continuo sostegno elettorale. I socialisti non monopolizzarono mai i voti della classe lavoratrice; anche i contatti con altre categorie furono instabili; e certe politiche normative e sociali richiedevano una crescita economica sostenuta. Il risultato fu che man mano che avvenivano grossi cambiamenti sociali e economici, la capacità di conquistare nuovi elettori e di attuare politiche positive andò scemando nel corso del Novecento e portò ad un calo significativo dei voti. Ma per ottenere cambiamenti non è indispensabile accedere alle leve di comando di un’istituzione centralizzata essenziale al funzionamento del capitalismo.

Per analizzare la tenuta dei cambiamenti incrementali, più che il conteggio degli iscritti o dei voti di un candidato socialista, sarebbe meglio valutare i costi che comporterebbe l’annullamento delle riforme. Ancora: molti miglioramenti e/o potenzialità sono attualmente impedite. Se dovessero realizzarsi e diventare parte di tutta l’infrastruttura, annullarle sarebbe difficile: eliminare parti critiche del sistema comporterebbe costi insostenibili.

Questi costi, inoltre, sarebbero amplificati da fattori sociali. Ci sono leggi o novità il cui gradimento sociale fa sì che qualsiasi tentativo di abrogazione diventi particolarmente oneroso in termini di risorse e/o perdita di credibilità. Altre volte è la mobilitazione di una minoranza sufficientemente motivata che, opponendosi apertamente all’abrogazione, impone costi insostenibili.

Per questo in alcuni casi il successo appare come una cooptazione da parte delle strutture di potere. Certo in passato ci sono state cooptazioni che hanno rafforzato il potere o neutralizzato i movimenti sociali. Ma ci sono anche vittorie parziali che sono state mantenute perché parzialmente cooptate (certi successi femministi e la crittografia avanzata ne sono un chiaro esempio).

La capacità di agire nella società è qualcosa che si può apprezzare. Possiamo dire significativamente che certe configurazioni sociali sono più vicine di altre a ciò che intendiamo noi. Occorre un approccio graduale vista la necessità di arrivare ad un vasto consenso. Mobilitare la gente per una causa specifica e concreta, come rovesciare un potere politico, lottare contro la discriminazione o lottare contro un’industria che sfrutta e distrugge è di per sé piuttosto difficile, ma è pur sempre molto più facile che lottare per questioni etiche.

Per questo quasi tutte le rivoluzioni e movimenti sociali dopo il successo si sono bloccate. Si può mobilitare la popolazione contro un particolare oppressore, ma una volta raggiunto lo scopo cade l’accordo sul seguito. Per le forze moderate è stato fatto abbastanza ed è meglio allearsi con i conservatori rimasti, mentre gli estremisti, in disaccordo sul futuro, languono. Si impone un nuovo equilibrio. Nonostante il ridimensionamento, però, ci sono ancora possibilità. Sia gli errori teorici che l’analisi anarchica del potere offrono un modesto ottimismo sul futuro: molte possibilità non sono state colte.

Allo stesso tempo, ci sono sconfitte che sono inevitabili. Le limitazioni algoritmiche che intralciano il potere intralciano anche la nostra capacità di modellare il futuro, così che gli sforzi volti a cambiare o a cercare un nuovo assetto sono di per sé pieni di rischi. Ironicamente, è proprio il concetto di inconoscibilità che, se da un lato è la nostra forza, dall’altro significa che il superamento del capitalismo è un processo complesso che probabilmente richiederà generazioni.

Conclusione

Questo è l’abbozzo di una critica anarchica del capitalismo, serve solo a evidenziare le principali differenze tra i marxisti e noi. Si può e si dovrebbe andare oltre, ma già questo dovrebbe bastare per capire le differenze di fondo. Voglio anche dire che questa non è una discussione accademica su semanticismi e capziosità. L’anarchismo e il marxismo sottolineano punti vulnerabili del capitalismo diversissimi tra loro, il che li porta a orientamenti strategici riguardo la realtà che sono parimenti diversi.

Se le economie di scala sono il fattore decisivo della lotta, un sostanziale cambiamento sociale può avvenire solo con una rivolta proletaria di dimensioni sufficienti. Tutto ciò che non contribuisce a rafforzare le istituzioni di classe e/o il “Partito” è una perdita di tempo. Se il capitalismo è piagato da inefficienze e potenziali punti deboli, è molto meglio cercare i punti in cui far leva perché così si può moltiplicare la forza come un movimento di massa e anche di più.

Ma questo metodo richiede dedizione. Analizzare bene la gamma di possibilità, soppesare i possibili percorsi per poi agire richiede molto sforzo ed è potenzialmente molto rischioso. Ci sono poche probabilità che chi non è motivato accetti l’impegno. Poche persone che agiscono secondo le proprie convinzioni possono sfruttare i punti deboli meglio di un’organizzazione di massa che spreca le proprie energie a mettere assieme persone prive di motivazione.

Soprattutto perché questo approccio non è incompatibile con i movimenti di massa. Che si sviluppano ugualmente, e che noi possiamo sostenere sviluppando e diffondendo strumenti, conoscenze e pratiche dal basso, piuttosto che cercando di instaurare un ascendente e dirigerli dall’alto.

Teoricamente e praticamente, molti anarchici e marxisti non rientrano perfettamente nelle rispettive categorie. Io credo che una maggiore coerenza non guasterebbe. Se vuoi davvero combattere il capitalismo razionalmente, devi essere disposto a rischiare e dedicare a quel fine molto tempo, energie e tutto il resto.

Vittima immediata di questa discrepanza è il concetto coerente di “Sinistra” intesa come opposizione al capitalismo (o altro). Io credo che il concetto di “Sinistra” sia ancora valido, ma si tratta di un fenomeno sociologico o sottoculturale storicamente contingente, non un blocco politico che può “riunirsi” attorno ad un insieme di valori o aspirazioni.

Credo che gli anarchici non dovrebbero identificarsi con la “Sinistra”, ma questo non significa che non ci sia possibilità di collaborazione e dialogo tra queste che sono due tradizioni di “Sinistra”. Credo anzi che una maggiore coscienza delle differenze debba portare ad un dialogo e una collaborazione più proficui, perché non basta appellarsi alla tradizione o ricordare i rischi della disunione per eliminare le differenze di fondo. Anarchici e marxisti sono in disaccordo sul capitalismo e questa è la realtà.

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The Center for a Stateless Society (www.c4ss.org) is a media center working to build awareness of the market anarchist alternative


Source: https://c4ss.org/content/60544


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