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Critica del Libertarismo “Accomodante” di Randy Barnett

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Di Gary Chartier. Articolo originale: A Critique of Randy Barnett’s ‘Accomodating’ Libertarianism, del 16 luglio 2024. Tradotto in italiano da Enrico Sanna.

L’originale di questo articolo è stato pubblicato su Libertarian Institute il 9 luglio 2024.

Randy Barnett è tra i pochi libertari più influenti della scena americana. I suoi testi di diritto sono alla base di molte cause contro lo stato; lui stesso ha sostenuto una causa davanti alla Corte Suprema. Da decenni partecipa attivamente al dibattito teorico libertario. Il suo libro The Structure of Liberty, giunto alla seconda edizione, offre una visione articolata e convincente dell’ordine legale astatuale, visione che da un quarto di secolo contribuisce al discorso teorico libertario.

Nessuna sorpresa, dunque, se la gente presta ascolto quando, come fa in un suo saggio recente, dice che bisogna aggiornare il pensiero libertario. Non capisco però perché dovremmo accettare la sua proposta.

Il suo discorso parte dallo stato del libertarismo in un mondo non libertario. Ma subito invita i libertari a prendere come base il diritto naturale, il che nel mondo attuale non sembra più o meno importante di quanto non lo sia in un ipotetico mondo libertario.

Barnett ha certamente ragione quando dice che il diritto naturale, nella sua piena accezione, offre un’immagine di quel vivere armonioso che può ispirare la voglia di vivere una vita esauriente e piena di significato. Ma non si può pensare che una teoria politica basata su un’interpretazione del diritto naturale produca tutto ciò. Un’interpretazione del diritto naturale (la mia, quella di Roderick Long o di Barnett, o anche quella proposta da Rasmussen e Den Uyl o altri) può certamente stare alla base di un’ideale vita fiorente e di un’interessante teoria politica. Ma non possiamo pensare che la teoria politica in sé faccia altrettanto. Il libertarismo, a prescindere dalle sue basi, ha ovviamente implicazioni che riguardano la vita sociale, al di là della sfera politica. I libertari non vogliono che la gente sia comandata a bacchetta da un potere gerarchico sociale, non più di quanto vogliano che sia comandata dallo stato. Riconoscono invece gli eccezionali benefici della sperimentazione sociale: è più lo spirito libertario che la sua politica che bisogna diffondere. Altra cosa è proporre non solo peculiari idee sociali e politiche ma anche un’etica. Posso anche essere a favore di una certa etica ma non posso legarla alla politica libertaria.

Libertari come Michael Huemer giustamente sottolineano l’equivalenza morale tra i rappresentanti dello stato e tutti gli altri, e denunciano lo stato perché il comportamento dei suoi rappresentanti travalica sistematicamente i limiti etici che tutti dovrebbero rispettare, e ciò senza che ci sia una ragione che giustifichi questa sorta di incoerenza. Barnett sembra attribuire più importanza di quanto non faccia io al fatto che noi viviamo in un mondo dominato dallo stato. Barnett vorrebbe che noi collaborassimo con lo stato. Non si capisce, però, perché dovremmo ignorare il fatto che lo stato è un esercizio criminale su vasta scala. È responsabile di razzie, furti, schiavitù e assassinii. È illecito perché non si basa sul consenso di chi pretende di governare. È a tutti gli effetti un’enorme banda criminale.

Barnett pensa che lo stato possa essere in una certa misura legittimato: ci sono casi, quando appare un affidabile protettore dei diritti, in cui merita obbedienza. Questo discorso perde tutta la sua credibilità quando lo stato viola attivamente i diritti e quando c’è la probabilità che lo faccia sistematicamente e continuamente.

Anche una banda criminale può fare qualcosa di utile. Può combattere altri criminali, ad esempio. Ma questo non la rende meno criminale. In certi casi, possiamo avere qualche ragione di cooperare, ad esempio quando protegge contro la violenza ingiustificata. Ma non abbiamo alcuna ragione di trattarla come se fosse un’entità inoffensiva o lecita, e non possiamo approvare le sue azioni se non quando queste sono coerenti con le domande etiche. Non esiste alcun dovere di obbedienza.

Io sono anarchico. Penso però che anche quei libertari che credono nella possibilità di uno stato legittimo, che può e deve operare entro stretti limiti morali (come Robert Nozick, Jacob Hornberger o altri della tradizione oggettivistica), farebbero meglio a guardare gli stati esistenti con lo stesso sospetto con cui li guardiamo noi anarchici. Troverebbero ben poche ragioni per riconoscere, come fa Barnett, la legittimità di un regime che non rispetta il limite etico.

Lo stato è infido per natura. Barnett invece vorrebbe far passare un concetto libertario di cittadinanza, vorrebbe che si ammettesse l’esistenza, oltre che dei diritti naturali, anche di quelli civili, validi in quanto membri di uno stato particolare. Vorrebbe che considerassimo lo stato come un club, come un’organizzazione con i suoi soci; in modo da poter dire che “farne parte significa godere di privilegi”. Questo “farne parte” ci ricorda quello che ci dicevano a lezione di educazione civica: “lo stato siamo noi”. Così facendo si oscura la relazione antagonistica e predatoria tra lo stato e i suoi sottoposti. Se si parte da questo “farne parte” si rischia non solo di ignorare il carattere illecito e il comportamento sistematicamente criminale dello stato ma anche di promuovere il concetto di “libertarismo in un solo paese”. Che sarebbe un libertarismo che non riconosce l’importanza di rispettare la parità etica, i pari diritti di tutti anche quando i diritti non sono decretati dallo stato, anche senza tener conto di ciò che fanno gli illeciti rappresentanti dello stato. Il risultato potrebbe essere qualunque cosa, dalla restrizione dell’immigrazione alle sanzioni alle limitazioni del commercio. (Per intenderci, Barnett non dice niente di tutto ciò, sono io che deduco che il “libertarismo in un solo paese” potrebbe portare a tutto ciò). Il “libertarismo in un solo paese” è uno schiaffo all’universalità etica che sta al cuore della tradizione liberale; ci porta a chiederci: con quale autorità lo stato conferisce particolari privilegi ai suoi presunti soci?

Barnett inoltre ci invita a ripensare il concetto di servizio “ad uso pubblico”, notando come debba giustamente essere soggetto a normative statali anche quando non appartiene allo stato.

Da tempo Barnett sostiene che un privato che voglia dettare le condizioni d’accesso a certe “strutture ad uso pubblico” dovrebbe basarsi sul diritto consuetudinario senza bisogno di nuove leggi. Che questo sia il caso o no è secondario. Non basta che un comportamento derivi dal diritto consuetudinario per dire che rispetta l’autonomia della persona, la libertà di associarsi e i diritti di proprietà.

Richard Epstein ha dimostrato come le norme approvate negli Stati Uniti verso la metà del Novecento, che precludevano la discriminazione nell’accesso alle cosiddette “strutture ad uso pubblico”, erano giustificate dall’esistenza di una violenza di sfondo diretta contro chi non applicava la discriminazione e dal diffuso, anche se nascosto, desiderio dei mercanti che volevano che queste norme fossero applicate uniformemente (avrebbero comunque approvato queste norme per questioni sia etiche che commerciali). Il fatto che Epstein abbia avuto ragione in un particolare contesto storico, però, non significa che regolare l’accesso a una struttura ad uso pubblico tramite lo stato sia libertariamente accettabile. L’etica vuole che chi possiede tali strutture offra l’accesso senza pregiudizi. Ma vuole anche che non si usi violenza contro persone o cose al fine di evitare, rimediare o porre fine ad una condotta morale che di per sé non comporta violenza o dolo.

Barnett fa capire che i libertari dovrebbero concentrare la loro attenzione sul potere aziendale, e invita ad immaginare l’uso orribile che se ne potrebbe fare. Ha sicuramente ragione ad essere molto preoccupato per il potenziale violento di certe aziende. Però io mi chiedo se quelle violenze potrebbero avere luogo senza la minaccia della forza dello stato (ad esempio, contro i social media) e senza i privilegi garantiti per legge (soprattutto la proprietà intellettuale, forse un esempio di diritto civile barnettiano). E se le concessioni statali prefigurate da Barnett, in quanto interferenze con il potere aziendale, avessero effetti sistemici che portano ad un’ulteriore espansione dello stato piuttosto che ad un rafforzamento della libertà?

A differenza del passato, oggi Barnett sembra convinto che i libertari debbano pensare più alla libertà che alla proprietà. Il che è una dicotomia da respingere, secondo me. In forma propriamente equa, i diritti di proprietà rappresentano il guscio della libertà; o più precisamente di quel sottoinsieme che corrisponde alla libertà difendibile con la forza.

Tolto un breve riferimento ad una versione libertaria forte del diritto naturale, il manifesto barnettiano sembra soprattutto un richiamo ai libertari ad avere una visione accomodante del potere statale. Il suo impegno a favore della libertà è fuor di dubbio, così come anche la sua credibilità di studioso e il suo peso intellettuale. Io però credo che anche nel mondo di seconda scelta in cui ci troviamo a vivere possiamo perseguire la libertà senza tutti quegli accomodamenti che Barnett vorrebbe incoraggiare.

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